Per l’Italia, afflitta, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, da questa che è diventata una vera e propria “ questione nazionale” dobbiamo registrare che è mancata, e sta tuttora mancando, un’adeguata risposta da parte di tutti i governi, ed i parlamenti, succedutisi fino ad oggi.
Il Debito pubblico è così stata definita la più grave malattia dell’Italia, anche perché a fronte di questa criticità non si è riusciti a sostenere adeguatamente il Pil, il cui rapporto con il Debito ha finito per rappresentare un elemento continuo di debolezza e di perdita di capacità politica da parte del Paese.
Siamo al punto che, pressoché quotidianamente, la questione dei cosiddetti “ conti pubblici” si ripropone, come conferma anche il recentissimo grido di allarme della Cgia di Mestre ( CLICCA QUI ) , in relazione ad una quasi certa manovra da 18,5 mld che il nuovo governo, qualunque esso sia, ammesso che ce ne sia uno nuovo a breve, dovrà impostare “ per evitare l’aumento dell’Iva, per correggere i nostri conti pubblici e per far fronte a uscite già impegnate”.
Una questione lasciata in eredità dall’ultimo governo della scorsa legislatura e che, purtroppo, non potrà essere tenuta in eterno in sospeso.
Pubblichiamo, così, integralmente l’intervento di Davide Gionco seguito dalle considerazioni che alcuni soci di Convergenza Cristiana 3.0 hanno espresso al riguardo.
E’ DAVVERO NECESSARIO RIDURRE IL DEBITO PUBBLICO? – I falsi luoghi comuni che sembrerebbero sostenere questa necessità. Di Davide Gionco, già pubblicato su Attivismo.it
“ Non me ne vogliano i molti politici e giornalisti che ci ricordano ogni giorno che “dobbiamo ridurre il debito pubblico per il bene del paese”, come ad esempio l’attuale Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Nulla di personale contro queste persone, ma stupisce come tante persone che pure si presentano come intelligenti e preparate continuino a perseguire un obiettivo politico privo di senso e dannoso per il nostro paese.
Facciamo chiarezza una volta per tutte su questa “fake news” che ci viene ripetuta centinaia di volte in TV e sui giornali.
Riporto solo alcune citazioni degli ultimi giorni:
https://www.panorama.it/economia/debito-pubblico-come-ridurlo/
https://www.firstonline.info/debito-pubblico-italiano-ridurlo-tre-mosse-proposta-luiss/
https://it.finance.yahoo.com/notizie/visco-ridurre-il-debito-pubblico-non-ci-sono-114115957.html
http://www.avantionline.it/2018/01/bankitalia-debito-pubblico-giu-di-quasi-15-miliardi/
Questo obiettivo viene addirittura spesso presentato come l’obiettivo politico fondamentale.
Per quali ragioni questo obiettivo politico sbagliato e dannoso viene ritenuto così importante da molti politici?
Ecco una analisi dettagliata dei vari errori.
Errore n.1
Ce lo chiede l’Europa
L’Unione Europea non chiede di ridurre il debito pubblico, ma di ridurre il rapporto debito/PIL (PIL = Prodotto Interno Lordo) idealmente al valore del 60% ovvero di 0,6.
Trattandosi di una frazione matematica è possibile ottenere una riduzione del valore sia riducendo il numeratore, sia aumentando il denominatore.
Questo significa che lo stesso obiettivo potrebbe essere raggiunto facendo crescere il PIL più di quanto cresca il debito.
La decisione politica di perseguire questo obiettivo puntando unicamente sulla riduzione del valore assoluto del debito, tagliando la spesa pubblica o aumentando le tasse, non è quindi “la via obbligata”, come invece ci viene dato a intendere sui giornali e in TV dai politici.
Quindi non è vero che l’Europa ci chiede di tagliare la spesa pubblica.
Le conseguenze di questo “errore” sono sotto gli occhi di tutti: peggioramento dei servizi sanitari, della manutenzione stradale, meno fondi ai servizi di sicurezza, tassazione a livelli intollerabili che porta al fallimento moltissime imprese, creando disoccupazione.
Esiste un solo caso storico in cui un governo sia riuscito ad azzerare il debito pubblico, con queste conseguenze.
Errore n.2
I tagli alla “spesa improduttiva” consentono di ridurre il rapporto debito/PIL
Facciamo chiarezza su un errore diffusissimo: i tagli alla “spesa improduttiva”.
Quando parliamo di debito e di PIL, e quindi anche di rapporto debito/PIL, facciamo sempre riferimento a delle grandezze quantitative, non a delle grandezze qualitative.
Quando parliamo di “spesa improduttiva” a cosa ci riferiamo?
a) Ci riferiamo a spesa che non produce utili finanziari?
In questo caso la spesa sanitaria, in particolare le cure rivolte agli anziani che non lavorano, sarebbe a tutti gli effetti una “spesa inutile” e dovrebbe essere tagliata. Naturalmente nessuno di noi vuole privare gli anziani delle cure mediche, in quanto il valore in gioco è la salute.
La spesa pubblica non ha come obiettivo la realizzazione di utili finanziari, ma l’erogazione di servizi pubblici di utilità “umana” e non finanziaria.
Quindi non sono questi i tagli che vorremmo fare.
Quando parliamo di “spesa improduttiva” ci riferiamo, quindi, a b) fornitori dello Stato, dipendenti o ditte esterne, che sono pagati senza fornire un servizio utile. Ad esempio un barbiere del Senato che viene pagato 136 mila euro l’anno per tagliare i capelli ai nostri senatori. O parliamo dei troppi forestali di qualche regione dell’Italia meridionale che sono stipendiati senza che vi sia una reale necessità del loro lavoro.
Evidentemente queste spese potrebbero essere tagliate senza avere alcuna ripercussione sull’erogazione di servizi pubblici.
Tuttavia sia nel caso a) che nel caso b) ci siamo sempre limitati a valutazioni di tipo qualitativo.
In macroeconomia il PIL viene calcolato come:
PIL = C + I + G + NX
Dove C sono i consumi privati, I sono gli investimenti delle imprese G è la spesa pubblica e NX è il saldo degli scambi con l’estero.
Se ci riferiamo a G = “spesa pubblica”, si parla di spesa senza alcun riferimento qualitativo.
Se spendo 100 € per servizi sanitari utili, G vale 100 €.
Se spendo 100 € per servizi inutili, o addirittura in cambio di niente, G vale comunque 100 €.
Qualsiasi taglio alla “spesa pubblica produttiva” comporta inevitabilmente una riduzione del PIL, in quanto si riduce il fattore G. Lo stesso risultato si ottiene tagliando la “spesa pubblica improduttiva”.
Nel primo caso il taglio di spesa produttiva comporterà una riduzione della qualità dei servizi pubblici; nel secondo caso il taglio di spesa improduttiva non comporterà una riduzione della qualità dei servizi.
In entrambi i casi si avrà una diminuzione di G e quindi del PIL, senza alcuna distinzione contabile nel calcolo del rapporto debito/PIL.
Quindi eventuali tagli alla spesa pubblica improduttiva non porteranno alcun vantaggio per la sostenibilità del debito, anzi, nei capitoli seguenti dimostreremo che porta degli svantaggi.
Casomai possiamo discutere se una diminuzione della spesa pubblica G, produttiva o improduttiva che sia, possa essere compensata da un conseguente aumento delle altre voci C, I o NX. Ne parleremo più avanti.
Per il momento il fatto certo è che tagliando la spesa pubblica produttiva priviamo i cittadini di alcuni servizi pubblici di base, come la sanità, la scuola, la manutenzione delle strade e del territorio, ecc.
Tagliando la spesa pubblica improduttiva potremo forse ridurre gli stipendi esagerati dei barbieri del Senato, ma ci ritroveremmo con molti disoccupati a carico della società nel caso di licenziamento dei forestali in esubero, che non troverebbero un altro impiego.
E’ sacrosanto “eliminare gli sprechi” di denaro pubblico, ma questo significa che dobbiamo poi utilizzare lo stesso denaro per finanziare altre attività utili, riducendo nello stesso tempo le attività improduttive. Quindi: nessun risparmio di denaro, ma solo una riqualificazione della spesa.
Errore n.3
Tagliando il debito pubblico il rapporto debito/PIL diminuisce
Se uno stato aumenta la spesa pubblica “G” di 200 miliardi di euro, il PIL aumenta per definizione almeno di 200 miliardi di euro.
PIL = C + I + (G+200) + NX
Se questo aumento di spesa avviene facendo deficit, allora anche il debito aumenterà di 200 miliardi di euro.
Se uno stato taglia la spesa pubblica di 200 miliardi di euro, anche il PIL diminuirà di 200 miliardi di euro.
PIL = C + I + (G-200) + NX
Facciamo un esempio concreto: supponiamo di avere un debito pubblico di 2’000 miliardi ed un PIL da 1’600 miliardi. Il coefficiente debito/PIL vale 2’000/1’600 = 1,25 = 125%.
Aumentando la spesa pubblica, e il PIL, di 200 miliardi, il rapporto diventa 2’200/1’800 = 1,22 = 122%, 3% in meno dell’anno precedente.
Riducendo la spesa pubblica, e il PIL, di 200 miliardi, il rapporto diventa 1’800/1’400 = 1,29 = 129%, 4% in più dell’anno precedente.
Questo, ovviamente, senza tenere conto dei 6 milioni di posti di lavoro che verrebbero distrutti con una manovra del genere.
Quindi se l’obiettivo è la riduzione del rapporto debito/PIL, è necessario aumentare la spesa pubblica, non diminuirla.
Se si taglia la spesa pubblica, compresa la “spesa improduttiva”, l’effetto è un peggioramento del rapporto debito/PIL e un allontanamento dall’obiettivo fissato dall’Unione Europea.
Quindi il taglio del debito pubblico, come valore assoluto, porta ad una minore sostenibilità del debito, l’esatto opposto dell’obiettivo prefissato.
Errore n.4
Il taglio della spesa pubblica riduce la presenza dello Stato nell’economia e liberare risorse private. Il privato investe meglio dello stato, per cui il PIL crescerà maggiormente
Il fondamento di questa affermazione è la constatazione che spesso gli enti pubblici spendono male il denaro causando sprechi, mentre molte aziende private sanno investire bene il denaro, generando utili.
Ricordiamoci quanto dimostrato parlando dell’Errore n.2: uno scorretto utilizzo del denaro pubblico porta eventualmente ad uno spreco di risorse umane, ma genera comunque una crescita del PIL pari alla spesa sostenuta. Male che vada la spesa di 100 euro genera una crescita del PIL di 100 euro.
Se lo Stato riduce la spesa pubblica di 100 euro, riducendo le tasse, ci sarà un imprenditore private che disporrà di 100 euro da investire. Che cosa ne farà?
Un bravo imprenditore potrebbero effettivamente investire quei 100 euro nella propria impresa, generando un PIL magari di 105 euro, con un 5% di margine di utile.
Tuttavia esiste anche la probabilità che, in periodo di crisi economica, decida che sia troppo rischioso investire denaro nella propria azienda in Italia e preferisca piuttosto investire in una azienda estera o investire in prodotti finanziari. In questi due casi i 100 euro affidati all’imprenditore porterebbero ad una crescita zero del PIL (almeno in Italia).
Quindi tagliare la spesa pubblica per liberare risorse in favore dei privati non garantisce “certamente” una maggiore crescita del PIL. Anzi, in periodo di crisi economica avviene piuttosto il contrario: una riduzione del PIL, venendo a mancare il PIL prodotto dallo Stato ed essendo il PIL generato dal privato inferiore a quello che sarebbe generato dalla spesa pubblica.
Tagliando ad esempio la spesa pubblica e le tasse di 100 miliardi, per poi realizzare sgravi fiscali in favore di imprese, le imprese non troveranno conveniente investire in un mercato in recessione. Succederà quindi che l’attuale rapporto debito/PIL 2’000/1’600 = 125% diventa (2’000-100)/(1’600-100+5) = 1’900/1’505 =126,2% : La situazione peggiora.
Quindi il taglio di spesa pubblica in periodo di crisi economica rende il debito pubblico meno sostenibile, l’esatto opposto dell’obiettivo prefissato.
Errore n.5
Non sapere cosa è il moltiplicatore keynesiano
Nei capitoli precedenti abbiamo, in modo semplificato, parlato delle conseguenze dei tagli o degli incrementi del bilancio pubblico.
Come si intuisce da quanto scritte nelle righe precedenti, gli effetti sul prodotto interno lordo di una maggiore o di una minore spesa, pubblica o privata, non sono sempre uguali, ma dipendono dall’uso che viene fatto di quel denaro.
Il grande economista del secolo scorso John Maynard Keynes spiegava come la propensione al consumo da parte di una persona vari in funzione della situazione economica generale e della situazione economica propria particolare.
Si tratta di un fatto assolutamente evidente.
Se una persona percepisce un pagamento, in genere cosa ne fa del denaro ricevuto?
La risposta non è di carattere generale, ma particolare, dato che ogni persona ha diverse necessità e diverse priorità.
Ciascuno di noi ha delle necessità primarie che difficilmente possono essere “tagliate”, come il bisogno di nutrirsi, di curarsi in caso di malattia, di riscaldare la casa durante l’inverno, ecc.
Di conseguenza una parte del proprio reddito sarà sempre destinata a fare fronte a queste esigenze.
Una persona povera spenderà il 100% del proprio reddito, il poco che ha, per fare fronte a queste esigenze primarie.
Man mano che il reddito aumenta, una persona potrà decidere di acquistare beni e servizi utili, anche se non proprio essenziali o magari di accantonare una parte del denaro (risparmio) per fare fronte a spese impreviste future.
Se poi il reddito aumenta ancora, una persona potrà permettersi spese per “beni e servizi di lusso”, di risparmiare in modo più cospicuo, fino a potersi permettere di investire una parte “non necessaria” del proprio reddito magari in attività finanziarie.
Ogni volta che una di queste persone spende per l’acquisto di beni e servizi, genera un aumento del PIL, in quanto qualcuno lavorerà per produrre i beni/servizi richiesti.
Ogni volta che una di queste persone risparmia una parte del proprio reddito o lo investe in attività finanziarie, non genera un aumento del PIL, dato che queste attività non rientrano nel computo del PIL.
Risulta quindi evidente che la percentuale di reddito che viene spesa generando un aumento del PIL è maggiore nelle persone a basso reddito, mentre è minore nelle persone ad alto reddito.
Se ritorniamo ora alla spesa pubblica, la spesa pubblica che, oltre a produrre beni e servizi al momento della spesa, va a finire nelle tasche di persone a basso reddito, che magari prima erano addirittura disoccupate, consente a quelle persone di ri-spendere quel denaro, generando un ulteriore aumento del prodotto interno lordo.
Se, invece, la spesa pubblica va a beneficio di attività che non generano crescita del PIL, come ad esempio il pagamento degli interessi sul debito o di impegnative derivanti da titoli derivati, il beneficio per il PIL sarà nullo.
Se la spesa pubblica va a beneficio di persone già ricche e benestanti, come ad esempio degli imprenditori che operano su forniture pubbliche in monopolio, i benefici per la crescita del PIL saranno molto limitati.
Questo significa che l’EFFICACIA della spesa pubblica nel fare aumentare il PIL dipende molto dal tipo di spesa che viene fatta, ma anche dalla situazione economica del paese.
In un paese a piena occupazione con molte persone benestanti (non è il caso dell’Italia di oggi) è più probabile che la spesa pubblica vada a beneficiare lavoratori non eccessivamente poveri.
Ma in un paese con un alto tasso di disoccupazione e con molte imprese che operano in sottoproduzione, se la spesa pubblica fosse destinata ad attività che fanno incrementare il reddito di queste persone ed imprese, il loro reddito verrebbe in gran parte ri-speso per le loro esigenze, generando un aumento di PIL superiore a quello dell’investimento pubblico iniziale.
Secondo gli esperti di macroeconomia oggi in Italia il cosiddetto “moltiplicatore keynesiano”, chiamato anche da alcuni “moltiplicatore fiscale” vale 1,5.
Questo significa che mediamente un investimento pubblico di 1,00 € consegue una crescita del PIL di 1,50 €.
Ma questo significa anche che un taglio di 1,00 € della spesa pubblica destinata alle categorie sotto-occupate provoca una decrescita del PIL di 1,50 €.
La non conoscenza di questo concetto fondamentale e, ragionandoci sopra, del tutto evidente della macroeconomia porta quindi a sottostimare gli effetti dei tagli e degli aumenti della spesa pubblica.
Sulla base di queste considerazioni possiamo quindi rivedere i calcoli esposti precedentemente, per dare i risultati corretti.
Supponiamo sempre di avere un debito pubblico di 2’000 miliardi ed un PIL da 1’600 miliardi. Il coefficiente debito/PIL vale 2’000/1’600 = 1,25 = 125%.
Aumentando la spesa pubblica di 200 miliardi il debito salirà a 2’200 miliardi, mentre il PIL salirà a 1’600+(1,5*200) = 1’900 miliardi.
Il rapporto debito/PIL diventerà quindi 2’200/1’900 = 1,16 = 116%, 9% in meno dell’anno precedente.
Riducendo la spesa pubblica di 200 miliardi, il debito si ridurrà a 1’800 miliardi, mentre il PIL scenderà a 1600 –(1.5*200) = 1’300 miliardi.
Il rapporto debito/PIL diventerà quindi 1’800/1’300 = 1,38 = 138%, 13% in meno dell’anno precedente.
E ricordiamo a tutti che un calo di 300 miliardi del PIL significa la perdita di almeno 5 milioni di posti di lavoro.
Questo significa che i tagli alla spesa pubblica portano ad un disastro sociale e ad una maggiore insostenibilità del debito pubblico.
La prova di queste dinamiche è quanto successo in Grecia negli ultimi anni, dopo avere applicato le richieste dei “creditori” (banche franco-tedesche supportate dalla Commissione Europea).
Risultati simili, naturalmente, si ottengono aumentando la tassazione e tenendo costante la spesa pubblica, in quanto l’aumento di tassazione va a sottrarre più denaro ai cittadini, senza restituirlo con la spesa pubblica, riducendo la possibilità di spesa individuale dei cittadini.
In una situazione economica con moltiplicatore fiscale pari a 1.5, un aumento di tasse di 50 miliardi, senza un corrispettivo aumento di 50 miliardi della spesa pubblica, porterà ad una riduzione del PIL pari a 1.5*50 = 75 miliardi.
Errore n.6
Lo stato è come una famiglia, non può spendere più di quanto incassa
E’ una idea comune molto diffusa che lo Stato sia come una famiglia o come una impresa.
Uno Stato che incassa 100 di tasse dovrebbe al massimo sostenere una spesa pubblica di 100.
Ma come funziona il bilancio di uno stato?
Il bilancio di uno stato è una equivalenza fra le voci in entrata e le voci in uscita, come ogni altro bilancio.
Riduciamo le voci ai minimi termini per semplificare la comprensione del pareggio di bilancio.
Entrate:
- (T) Tasse (tasse, imposte, accise, multe, canoni, ecc.)
- (B) Emissioni di titoli di stato
Uscite:
- (I) Spesa pubblica (stipendi, investimenti)
- (B’) Pagamento dei titoli di stato
T + B = I + B’
ovvero
(T – I) = I + (B’ – B)
dove (B’-B) sono gli interessi passivi sul debito pubblico e (T – I) è il differenziale fra quanto lo Stato incassa mediante la fiscalità e quanto spende per garantire i servizi pubblici.
Fare “pareggio di bilancio”, come è stato previsto con la riforma del 2011 che ha modificato l’art. 11 della Costituzione, significa quindi che, ogni anno, lo Stato deve garantire un attivo di bilancio primario (così si definisce tecnicamente il bilancio dello stato senza tenere conto del rimborso degli interessi passivi) pari al valore degli interessi passivi.
Con un debito pubblico di 2’300 miliardi e con un tasso di interesse medio sui titoli di stato del 4% significa che
(B’ – B) = 4% di 2’300 = 92 miliardi
Questo significa che se la pressione fiscale corrisponde a 800 miliardi (50% del PIL), la spesa pubblica potrà al massimo essere di 800 – 92 = 708 miliardi.
Se qualcuno volesse non tagliare la spesa pubblica e mantenerla costante a 800 miliardi, allora la pressione fiscale dovrà salire a 800 + 92 = 892 miliardi.
In entrambi i casi “pareggio di bilancio” significa che il settore privato (imprese e famiglie) subirà una riduzione della propria capacità di spesa di 92 miliardi, o a causa del tagli alla spesa pubblica (meno commesse pubbliche, meno assunzioni pubbliche) o a causa dell’aumento delle tasse.
Con un moltiplicatore keynesiano pari a 1.5 (si veda il capitolo precedente), questo significa ogni anno una riduzione del PIL causata dal pareggio di bilancio pari a 1.5*92 = 138 miliardi, pari ad un potenziale di 3,5 milioni di posti di lavoro.
Dovendo pagare ogni anno degli interessi passivi sul debito, fare pareggio di bilancio significa ogni anno sottrarre al settore privato (famiglie e imprese) denaro pari al valore degli interessi passivi.
In realtà l’effetto delle politiche governative non è stato così disastroso per il momento, dato che l’effettivo pareggio di bilancio non è ancora mai stato attuato (per fortuna).
Anche senza arrivare al pareggio di bilancio, fare un deficit pubblico pari al 2,2% del PIL, con dei tassi di interesse che valgono 92 miliardi su di un PIL di 1’600 miliardi (oltre il 5%, per semplicità 2 che sia il 5%), significa che ogni anno
T – I + 2,2%PIL = B’ – B = 5% PIL
ovvero
T – I = (5-2,2)%PIL = 2,8%PIL = 40 miliardi.
Questo significa che l’Unione Europea impone attualmente al nostro governo di sottrarre ogni anno al settore privato (famiglie e imprese) 40 miliardi.
L’effetto sul PIL di questa operazione, derivante dal “concetto” di pareggio di bilancio, con un moltiplicatore keynesiano a 1,5 è una riduzione di 1,5*40 = 60 miliardi l’anno di perdita di PIL potenziale, pari alla perdita di 1,5 milioni di posti di lavoro.
Questo tipo di politiche è in atto da molto tempo, come si può vedere chiaramente dal diagramma che segue, in cui l’Italia si presenta come fra i paesi in Europa che più di tutti hanno realizzato attivi di bilancio primario, sottraendo denaro all’economia reale, per trasferirlo all’economia finanziaria.
I danni al sistema produttivo italiano sono stati in realtà in parte limitati dalla “inerzia” del sistema, ovvero facendo ricorso al risparmio privato delle famiglie che si è progressivamente eroso.
La riduzione del danno è avvenuta anche mediante il corposo processo di privatizzazione di molti beni e servizi pubblici, con pochi eguali nel mondo occidentale, che hanno portato denaro alle casse dello stato, consentendo per alcuni anni di limitare i danni all’economia reale causati dalle politiche di austerità.
Ma con la progressiva riduzione dei risparmi e con quasi più nulla da privatizzare i danni per i continui attivi di bilancio primario si scaricheranno sempre di più sulle famiglie e sulle imprese.
Stendiamo un velo pietoso su coloro che, come Emma Bonino, penserebbero di bloccare la spesa pubblica per 5 anni, in modo da ridurre il coefficiente debito/PIL.
Dovendo l’Italia comunque pagare ogni anno 92 miliardi di interessi l’anno (supponiamo il valore costante) e il debito aumenterebbe comunque di 5*92 = 460 miliardi di euro, mentre il PIL mancherebbe della crescita portata dall’aumento della spesa pubblica, per cui il rapporto debito/PIL aumenterebbe vertiginosamente.
Ed auguriamoci che mai nessuno tenti veramente di ridurre il debito al 60% del PIL in 20 anni, come ci chiederebbero i trattati europei, perché questo significherebbe, con un debito al 130% del PIL, ridurre il debito/PIL del (130-60)/20 = del 3,5% l’anno avendo degli interessi passivi che pesano il 4% del PIL, realizzando complessivamente un attivo di bilancio primario del 7,5% del PIL, pari a 120 miliardi l’anno di differenziale fra tasse pagate ed investimenti pubblici, che porterebbe ad un tracollo certo della nostra economia.
Errore n.7
Non conoscere come è fatto il bilancio dello Stato
L’equazione precedentemente riportata che rappresenta il bilancio dello Stato come viene visto oggi dalla maggior parte della classe politica e dalla popolazione
T + B = I + B’
con
Entrate:
- (T) Tasse (tasse, imposte, accise, multe, canoni, ecc.)
- (B) Emissioni di titoli di stato
Uscite:
- (I) Spesa pubblica (stipendi, investimenti)
- (B’) Pagamento dei titoli di stato
In realtà non è corretta!
La descrizione corretta del bilancio di uno Stato sovrano è la seguente:
T + B + M = I + B’
con
Entrate:
- (T) Tasse (tasse, imposte, accise, multe, canoni, ecc.)
- (B) Emissioni di titoli di stato
- (M) Nuove emissioni di moneta
Uscite:
- (I) Spesa pubblica (stipendi, investimenti)
- (B’) Pagamento dei titoli di stato
Che diventa anche:
(T + M) – I = (B’ – B)
Uno Stato sovrano che possa emettere della propria moneta in quantità M è in grado di fare fronte al pagamento degli interessi senza tagliare la spesa pubblica o senza dovere aumentare le tasse.
L’Italia si è privata di questa prerogativa quando ha ceduto la propria sovranità monetaria alla BCE.
In realtà anche prima la Banca d’Italia emetteva denaro solo in cambio di nuovi titoli di debito. Ne parleremo inseguito.
Tuttavia esisteva sempre la possibilità di emettere dei “biglietti di stato”, come quando Aldo Moro emise le banconote da 500 lire
Il fatto di stampare del nuovo denaro non è una “ipotesi bizzarra”, ma è una delle prerogative principali di uno stato sovrano (le colonie usano moneta stampata da altri) ed è anzi l’unico modo per evitare che un bilancio pubblico “in pareggio” vada a danneggiare l’economia reale.
Errore n.8
Il debito cresce a causa della eccessiva spesa pubblica
L’attuale debito pubblica italiano è di circa 2’300 miliardi di euro.
Alleghiamo una tabella che illustra l’evoluzione del debito pubblico in Italia dal 1980.
Dal 1980 al 2016
Si vede chiaramente come il debito sia generato dagli interessi passivi annui.
Se gli interessi fossero stati pari a zero il debito sarebbe stato azzerato già da molto tempo.
Ciò che rende veramente insostenibile il debito pubblico, quindi, non è il livello di spesa pubblica, con tutte le considerazioni di quanto essa sia strettamente legata alla crescita del PIL nazionale, ma è l’eccessivo livello di interessi.
Errore n.9
Siamo indebitati, è giusto pagare gli interessi sul debito
Ritorniamo al problema iniziale.
L’Unione Europea ci chiede di ridurre il rapporto debito/PIL puntando unicamente sul taglio della spesa pubblica, mentre in realtà il fattore principale del debito non è la spesa pubblica, ma sono i tassi di interesse sui titoli di stato.
A molti sembra evidente che chi si è indebitato debba pagare un tasso di interesse sul denaro chiesto in prestito.
Nello stesso tempo è necessario riconoscere che uno Stato che ha la possibilità di stampare il proprio denaro, non avrebbe bisogno di prenderlo in prestito “dai mercati”, per cui non ci sarebbero né debito, né interessi da pagare.
Se ci mettiamo dal punto di vista dei risparmiatori/investitori, non è lo Stato ad avere bisogno di denaro, ma sono i risparmiatori (privati, fondi d’investimento, banche) ad avere bisogno di un “luogo di investimento sicuro” e privo di rischi.
Uno stato sovrano potrebbe, quindi, emettere il proprio denaro auto-accreditandoselo, senza indebitarsi con nessuno.
E potrebbe anche cessare di emettere nuovi titoli di stato, per non indebitarsi. A quel punto non ci sarebbero problemi per lo stato, mentre gli investitori italiani avrebbero maggiori difficoltà a trovare un luogo sicuro dove collocare il proprio denaro.
Uno stato sovrano potrebbe quindi, se avesse l’obiettivo di eliminare il servizio pubblico di risparmio, imporre dei tassi negativi. Oppure potrebbe, in modo più logico, offrire ai risparmiatori un tasso di interesse pari al tasso di inflazione, in modo da tutelare il risparmio, dando adempimento all’rt. 47 della Costituzione.
Fino al 1981 la Banca d’Italia era sotto il pieno controllo dello stato ed agiva acquistando illimitatamente tutti i titoli di stato che i risparmiatori non avevano acquistato al tasso di interesse stabilito dal Tesoro.
Funzionava così: il Tesoro emetteva dei titoli e stabiliva il tasso di interesse. Chi voleva li comperava a quelle condizioni, per investire i propri risparmi. Chi non voleva, poteva tenere i soldi sotto il materasso o investire in altro modo.
Dopo il famoso “divorzio” del 1981 fra Banca d’Italia e Tesoro, la Banca d’Italia cessò di svolgere quel ruolo. Da allora il Tesoro quando emette dei nuovi titoli indice un’asta fra i principali investitori, i quali determinano i tassi di interesse, senza che la Banca d’Italia possa partecipare come “acquirente senza limiti” che consentirebbe di azzerare il potere contrattuale degli investitori.
Il fatto di avere rinunciato a controllare il livello dei tassi di interesse ha portato alla perdita del controllo sull’andamento del debito negli anni 1980. In seguito, con l’applicazione delle politiche di austerità, il debito è stato inizialmente contenuto grazie ai proventi delle corpose privatizzazioni. Finiti i beni pubblici da privatizzare, il debito ha ripreso a salire.
Quindi il fatto che lo Stato paghi un tasso di interesse agli investitori è una concessione dello stato che ha rinunciato alla propria sovranità.
Se gli interessi sui titoli fossero stati pari a zero dal 1980 al 2016, il debito pubblico si sarebbe azzerato.
E questo sarebbe stato possibile mantenendo il ruolo pubblico della Banca d’Italia nel controllo dei tassi di interesse.
La realtà è che nessuno ha l’interesse ad azzerare il debito pubblico, dato che si tratta di un servizio pubblico di risparmio fondamentale.
Casomai sarebbe opportuno mantenere il controllo dei tassi di interesse, ma soprattutto il potere di emettere nuovo denaro, in modo da garantire il servizio ai risparmiatori, senza per questo causare problemi al bilancio dello stato.
Se il debito sale principalmente a causa degli eccessivi tassi di interesse, allora la questione della sostenibilità del debito non deve essere cercata nel rapporto debito/PIL o nel parametro deficit/PIL, quanto piuttosto negli interessi annui da pagare (B’-B) in rapporto al PIL: (B’-B)/PIL.
Se il controllo del livello die tassi di interesse viene lasciato ai “mercati”, è chiaro che i “mercati” avranno il potere di rendere sostenibile o insostenibile i tassi di interesse, sia in modo legale, che tramite azioni corruttive.
Lo strumento fondamentale per garantire la sostenibilità del debito pubblico è la sovranità monetaria ovvero la possibilità di creare nuovo denaro per fare fronte a nuove spese dello stato senza aumentare il debito e per offrire ai risparmiatori un servizio pubblico di risparmio a tassi di interesse contenuti e controllati.
Purtroppo la sovranità monetaria è stata ceduta alla Banca Centrale Europea, la quale per statuto non ha la possibilità di operare per conto degli stati membri dell’Eurozona, garantendo loro i finanziamenti necessari per rendere sostenibile il debito pubblico.
Esistono stati sovrani come il Giappone che riescono a sostenere senza alcun problema un debito pubblico al 250% del PIL, semplicemente mantenendo sufficientemente bassi i tassi di interesse e con una banca centrale che collabora con il Tesoro, senza lasciare agli speculatori della finanza internazionale la determinazione dei tassi di interesse.
Errore n.10
Non possiamo emettere del nuovo denaro, perché si creerebbe inflazione
E’ credenza molto diffusa che non sia possibile emettere nuovo denaro in quanto si genererebbe una inflazione incontrollata, come quelle storiche della Repubblica di Weimar, dello Zimbawe o come quella in corso in Venezuela.
Diciamo innanzitutto che esistono anche casi in cui a grandi iniezioni di liquidità non siano per nulla seguiti dei fenomeni di eccessiva inflazione.
Il caso più eclatante è quello attuale della Banca Centrale Europea che negli ultimi anni ha immesso sul mercato la bellezza di oltre 4’000 miliardi di euro. Il risultato è stata una inflazione media in Europa inferiore al 2% e in Italia prossima allo zero.
In realtà i casi storici di iperinflazione hanno sempre avuto delle ragioni strutturali, illustrate ad esempio in questo articolo.
Non è difficile comprendere il legami fra quantità di denaro circolante ed il tasso di inflazione.
Il tasso di inflazione viene calcolato dall’ISTAT come l’aumento del costo del “paniere dei beni e servizi” standard in un certo intervallo di tempo, ad esempio un anno.
I prezzi dei beni e servizi posso aumentare per molte ragioni: aumento del costo delle materie prime fondamentali (ad esempio il petrolio), aumento delle tasse, aumento dei tassi di interesse del credito bancario, ma soprattutto da squilibri nel mercato fra domanda e offerta.
Quando la domanda di beni e servizi supera l’offerta, i prezzi dei beni e servizi tendono a salire.
Diversamente i prezzi resteranno costanti o varieranno in funzione degli altri fattori sopra elencati.
La messa in circolazione di nuovo denaro è un fattore che può aumentare la domanda di beni e servizi. Tuttavia non è detto che l’aumento di domanda porti ad un aumento dei prezzi.
Se, infatti, il sistema produttivo è in grado di soddisfare la domanda, ci sarà solo un aumento della produzione, ma non dei prezzi.
Se arrivassimo ad avere la piena occupazione, eventuali aumenti della domanda di beni e servizi favorirebbero della nuova immigrazione, più che un aumento dei prezzi.
Potrebbero esserci anche dei casi in cui la capacità produttiva diminuisce per ragioni strutturali: una guerra che ha distrutto le fabbriche o minato le aree di produzione agricola. Oppure l’azione di una potenza straniera che intenda bloccare la rete di distribuzione dei beni primari di un altro paese, rendendo le merci indisponibili nei punti di acquisto. In questi casi i prezzi dei prodotti aumenterebbero a causa della loro scarsa disponibilità, generando inflazione. A quel punto aumenterebbe la domanda di denaro per fare fronte agli aumenti dei prezzi, ma questa sarebbe la conseguenza e non la causa dell’inflazione.
In una economia avanzata come quella italiana se lo Stato aumentasse la spesa pubblica stampando del nuovo denaro, il risultato sarebbe una maggiore disponibilità di denaro per la popolazione.
A quel punto quella maggiore disponibilità farebbe aumentare la domanda interna, ma non all’infinito. Infatti una famiglia normale dopo avere soddisfatto i propri bisogno primari, potrà aumentare la propria spesa soddisfacendo anche i propri bisogni “di lusso”. Dopo di che non penserà ad aumentare ancora di più la spesa, ma penserà invece a risparmiare e ad investire il proprio denaro in beni immobili, in titoli di stato o sui mercati finanziari.
Se gli investimenti avvengono in beni compresi nel paniere standard, allora potranno forse portare ad un aumento del costo del paniere.
Ma se gli investimenti avvengono in beni non compresi nel paniere standard, come i prodotti finanziari, allora si avrà magari una crescita degli indici della borsa, ma non si avrà un aumento del tasso di inflazione.
Questo significa che lo Stato sovrano può con accortezza ricorrere alla emissione di nuovo denaro ai fini di mantenere sotto controllo il debito pubblico, oltre che, naturalmente, per utilizzarlo negli interessi della popolazione.
Lo “spauracchio” dell’inflazione o addirittura della iper-inflazione è qualcosa paventato da persone che non siano a conoscenza dei meccanismi che determinano l’aumento del costo del paniere standard.
Per onor di cronaca, i 4’000 miliardi e oltre creati dalla BCE non hanno creato inflazione in quanto sono finiti quasi tutti nei mercati finanziari: borse, fondi di investimento, ecc., ragione per cui alla ingente creazione di nuovo non è per nulla corrisposto un aumento dell’inflazione. Anzi, in Italia negli ultimi anni siamo addirittura stati in condizioni di deflazione (inflazione negativa).
Fonte: http://www.morningstar.co.uk
Conclusioni
Dopo avere messo in evidenza tutta una serie di errori che spesso portano ad affrontare in modo errato la questione della sostenibilità del debito pubblico, proviamo a fare un riassunto.
- Non è vero che dobbiamo tagliare la spesa pubblica per rispettare i trattati europei.
- Non è vero che i tagli alla “spesa improduttiva” portano benefici al bilancio pubblico. Gli sprechi devono essere eliminati, ma lo stesso denaro deve essere reinvestito in spesa utile.
- Non è vero che tagliare la spesa pubblica in debito riduce il rapporto al debito/PIL, è vero piuttosto il contrario.
- Non è vero che riducendo la presenza dello Stato nell’economia si liberano risorse per la “maggiore efficienza” del settore privato. Questo potrebbe essere vero in caso di una economia in salute, ma non è mai vero in una economia in crisi, in quanto i privati non investono in una economia in crisi, ma risparmiano o investono in paesi non in crisi.
- A causa del moltiplicatore fiscale (o keynesiano) i tagli alla spesa pubblica causano una riduzione del PIL superiore a quanto tagliato, per cui i tagli alla spesa pubblica non sono solo inefficaci, ma sono dannosi.
- Non è vero che lo Stato è come una famiglia, in quanto la spesa pubblica non sottrae il denaro alla disponibilità della “famiglia”. Il denaro, infatti, circola nel settore privato e poi ritorna allo stato.
- Uno Stato può spendere di più di quanto incassa, tramite la sovranità monetaria.
- Non è vero che il debito cresce a causa della eccessiva spesa pubblica. Quindi l’obiettivo dell’Unione Europea di rendere il debito sostenibile mediante il controllo del parametro deficit/PIL è sbagliato. Il debito cresce a causa degli eccessivi tassi di interesse determinati dai “mercati”, per il fatto che la sovranità monetaria è stata ceduta alla BCE che non collabora con i governi “indebitati”.
- Non è giusto pagare gli interessi sul debito. Gli interessi, anzi, sono uno strumento di potere dei mercati sugli stati democratici.
- La sovranità monetaria è lo strumento fondamentale per potere gestire il debito pubblico come servizio pubblico di risparmio senza che gli stati democratici siano sottomessi agli interessi economici dei “mercati”. Se l’emissione di moneta avviene in modo controllato, non esistono rischi di inflazione eccessiva.
In definitiva i trattati europei, ma soprattutto i mass-media ed i vari politici che continuano a ripetere il dogma dei “tagli alla spesa pubblica” portano il paese complementarmente fuori strada sia per l’obiettivo dichiarato di “rendere sostenibile il debito pubblico”, sia soprattutto per l’obiettivo fondamentale di ogni governo democratico, che è quello di garantire la piena occupazione ai propri cittadini ed una situazione economica di benessere economico diffuso”.
Davide Gionco
COMMENTI DI CONVERGENZA CRISTIANA 3.0
Gli amici di Convergenza Cristiana 3.0 ringraziano Davide Gionco per un’ulteriore occasione utile offerta per affrontare uno dei punti cruciali di un progetto politico, nuovo e concreto, in relazione al quale anche i cattolici possono portare un contributo all’attenzione dell’intero Paese.
Abbiamo raccolto, così, i pareri di alcuni di noi che riguardano gli aspetti generali del Debito pubblico italiano e del suo rilievo storico ed attuale.
Partiamo dal commento del Presidente di Convergenza Cristiana 3.0, Carlo Ranucci.
“Il debito pubblico elevato, dice Ranucci, è una costante dell’economia italiana ed è stato giustamente oggetto della riflessione di Davide Gionco. I dati ufficiali ne fanno risalire l’inizio ai primi anni 70, alla fine del periodo del noto boom economico nel quale le ingenti spese pubbliche venivano compensate dalle ingenti entrate pubbliche, il tutto legato al fiorente ciclo economico frutto della crescente produttività della nostra economia. Il principio del giusto riconoscimento del merito pilotava il sistema in ogni settore, la crescita sociale andava di pari passo con l’incremento produttivo. La società civile progrediva armoniosamente e il benessere si diffondeva equamente rispettando l’impegno profuso – e giustamente compensato – dal cittadino.
Questo meraviglioso equilibrio che dovrebbe fungere da sano criterio guida di ogni sistema organizzato, si ruppe per effetto di inefficienti gestioni politiche che si susseguirono nel tempo. Si volle dare al Paese obiettivi ambiziosi di diffuso e facile benessere di chiara natura propagandistica scollegando tale processo implementativo alla crescita produttiva che invece l’avrebbe dovuto sostenere. Al posto di quest’ultima si preferì utilizzare la leva del debito contando sul noto intervento obbligato di ultima istanza della banca centrale ad acquistare la parte dei titoli del debito rimasta inoptata. In tal modo si innestò il circolo vizioso della spesa pubblica progressivamente crescente, delle entrate pubbliche progressivamente discendenti, del deficit annuale cronicamente presente, del debito pubblico tendenzialmente in salita. Questo, ha quindi generato interessi in favore dei finanziatori, nazionali ed esteri, la cui mole anch’essa crescente ha rappresentato via via da allora quel fardello che pone in negativo il bilancio statale anche laddove questo si chiuda con attivo primario.
Alla luce del quadro sinteticamente descritto, emerge a mio avviso, l’importanza fondamentale del fattore produttività che rappresenta la terza punta del triangolo costituito da debito pubblico e spesa pubblica. Laddove la politica di spesa pubblica non sia commisurata all’indice di produttività del sistema nel suo complesso, non sarà possibile parlare di azione di risanamento duratura e quindi di rilancio della produzione e dell’occupazione.
Venendo velocemente all’attualità quindi, considerando la fase di stagnazione in atto, i vincoli istituzionali nazionali e internazionali che – giustamente, a mio avviso – ci impongono di rispettare i patti (tra l’altro viene certificata dal gennaio 2018 l’abbattimento di un ventesimo del debito pubblico – e non del rapporto debito/Pil – eccedente il 60% del PIL vale a dire ca. 80 miliardi l’anno) che abbiamo assunto (assunto per proteggerci unitariamente dall’assalto della competizione globale che ci avrebbe travolto), la nostra volontà nazionale di difendere le conquiste sociali (in cui fermamente crediamo per ragioni filosofiche, esistenziali, etiche e religiose) finanziate dalla spesa pubblica che quindi non dovrà giustamente arretrare, non rimane altra strada da perseguire che intervenire sulla politica economica del Paese modificando gli assetti costituiti.
Infatti, laddove, come nell’attuale situazione di crisi, le imprese non intravedono margini di ritorno degli utili, e quindi la loro propensione all’investimento è inferiore alla propensione marginale al risparmio e si è più propensi a investire in titoli piuttosto che a lavorare, allora una diminuzione della spesa pubblica fa decrescere il PIL e l’occupazione mentre fa crescere il tasso di interesse e pertanto il rapporto Debito/PIL. Viceversa un aumento della spesa pubblica fa crescere il PIL e il numero di occupati e fa decrescere il tasso di interesse: pertanto il rapporto Debito/PIL tende a diminuire. Quindi, anziché intervenire riducendo spesa pubblica si devono avviare politiche di incentivazione agli investimenti in economia reale e penalizzare la propensione marginale al risparmio.
Le risorse per procedere alla fase degli investimenti pubblici in funzione anticiclica dovranno rinvenire da un piano di riforma organico a 360° che necessariamente preveda, tra l’altro, una riforma fiscale in senso progressivo per recuperare e ridistribuire risorse interne, una rivisitazione del sistema delle retribuzioni pubbliche, un diverso assetto delle relazioni industriali ed aziendali, riqualificazione della spesa ecc.
Il debito pubblico elevato, al pari di quello privato (ben delineato, a mio parere, dal parallelismo della famiglia), oltre ad aggravare i costi, rappresenta un comportamento eticamente non corretto. Si può tollerare e giustificare per brevi periodi in funzione di esigenze eccezionali, ma da non procrastinare oltremisura. Rappresenta infatti ricchezza da restituire ai legittimi proprietari e al loro legittimo uso. Inoltre espone il debitore a rilievi reputazionali, a discredito sotto più profili, deprimendo nei soggetti, individuali e collettivi, la volontà di ricercare la spinta necessaria al superamento delle difficoltà contingenti e strutturali.”
Carlo Ranucci
Nino Galloni, interviene in particolare sui passaggi cruciali che hanno riguardato il Debito pubblico :
” Concordo di più con Gionco che non con Carlo. L’impennata del debito pubblico data 1981 quando la Banca d’Italia si liberò dall’obbligo morale di comperare l’inoptato, così il tasso di interesse non fu più deciso dal Tesoro (che lo teneva basso), ma dal mercato che, invece lo voleva molto remunerativo. È stata la spesa per interessi e non quella netta, dopo il 1981, a far crescere il debito dal 60% al 120%; dopo il 1992, col crollo dei tassi obbligazionari, il debito sarebbe sceso se non fosse stato per i pregressi titoli a lungo termine e, soprattutto, coll’assurdo errore dei derivati (“segreto di Stato”, ma pulcinella dice 167 miliardi di euro: grazie banche, grazie funzionari pubblici sui libri paga delle grandi banche, grazie Banca d’Italia vigilante, grazie amministratori comunali, regionali e provinciali per la vostra scienza).”
Nino Galloni
Su alcuni aspetti tecnici interviene Carlo Di Salvo il quale chiosa gli Errori 3, 4, 5 e 9, così come indicati da Gionco e le sue Conclusioni
Errore n. 3
Il costo del debito aumenta per debitori con debito crescente in assenza di miglioramenti sotto il versante delle entrate; quindi il debito è destinato a aumentare in assenza di incremento del PIL. Fa eccezione il caso in cui il debito sia in mano solo ai cittadini dello Stato che si è indebitato che si accontentano solo di una buona remunerazione senza guardare all’entità del debito
Errore n. 4
Corretto dire che non sempre il privato investe jn quanto valuta il rischio di impresa e in alcuni casi l’investimento risulta non remunerativo considerando il rischio. Però il rendimento dell’investimento, quando effettuato, è sicuramente superiore a quello richiesto dallo Stato; il punto è quindi di “costringere “l’imprenditore a investire e a reinvestire gli utili attraverso la leva fiscale ad esempio.
Errore n. 5
Il moltiplicatore keynesiano funziona molto bene in situazioni come quella attuale ma è solo l’attivatore di un processo virtuoso ma non può operare ad libitum andando a incrementare la spesa e poi il debito con aggravi sugli interessi da pagare. La spesa quindi va riqualificata nel tempo per corrispondere ad esigenze produttive o di welfare di tipo preventivo (riduzione della spesa sanitaria futura attraverso la prevenzione).
Errore n.9
Non siamo in un regime autarchico. Non possiamo pensare di non tenere conto della valutazione dei terzi a meno di ritirarci in un alveo di un paese totalmente privo di rapporti con l’esterno
Conclusioni
Mi sembra di dover aggiungere che pur riconoscendo alcune giuste considerazioni sulla gestione della spesa pubblica è innegabile che il discorso vada rivisto tenendo presente che spesa incontrollata porta debito e a interessi crescenti. Il debito può servire come nella situazione attuale a far ripartire l’economia ma la spesa e l’efficienza dell’apparato statale devono essere gestite attentamente per non portare ad un avvitamento progressivo.”
Carlo Di Salvo
Fabrizio Manzione, commenta sostenendo che “ nell’attuale quadro normativo e contesto europeo in cui è inserita attualmente l’Italia, non è ipotizzabile la “monetizzazione” del debito pubblico da parte della Banca d’Italia, in quanto la sovranità monetaria è stata ceduta alla Bce con i trattati europei. Ciò dunque sarebbe possibile, in teoria, solo uscendo dall’euro e adottando una moneta nazionale, che molto probabilmente risulterebbe svalutata rispetto all’euro del 30-40%, con conseguenza drammatiche per tutto il sistema economico del Paese.
Anche questa “riconquistata” autonomia non risolverebbe però il problema della sostenibilità del debito pubblico nel lungo periodo. Stampare moneta non in funzione della possibile domanda (che può variare nel tempo e non essere necessariamente facile da prevedere), ma puramente in funzione delle necessità di finanza pubblica causa un potenziale squilibrio tra domanda e offerta di moneta che porta gli agenti economici a tentare di liberarsene comprando, per esempio, beni, valuta estera o altre attività finanziarie con conseguenti effetti inflazionistici sul prezzo degli stessi.
Da notare che un’inflazione elevata (causata da finanziamento monetario del deficit) non richiede necessariamente che la domanda ecceda la capacità produttiva del paese. Nel 2016, l’inflazione in Argentina era vicina al 40 per cento, la crescita era negativa (-1,8 per cento) e la disoccupazione era al superiore al 9 per cento. L’inflazione in questi casi riflette la sfiducia che la moneta possa mantenere il suo potere d’acquisto nel tempo.
Anche l’esperienza italiana degli anni ’70 suggerisce la difficoltà di controllare l’inflazione in presenza di forti squilibri di finanza pubblica. Lo shock petrolifero del ’73 comportò una forte pressione inflazionistica (il tasso di inflazione a 12 mesi raggiunse il 27 per cento nel dicembre del 1974). La crisi però colpi anche altri paesi dove l’impatto inflazionistico fu più contenuto (l’inflazione raggiunse un massimo del 12 per cento negli Stati Uniti a fine 1974 e del 7 per cento in Germania). In Italia contribuivano alla maggiore inflazione i meccanismi di indicizzazione automatica, ma la pressione inflazionistica veniva validata dalla necessità della Banca d’Italia di finanziare gli elevati deficit pubblici: l’indebitamento era del 6,7 per cento per il solo bilancio statale nel 1973. Nello stesso anno la base monetaria aumentò del 19,3 per cento, un aumento più che per intero spiegato dai finanziamenti al Tesoro (si veda Tav. 100, p. 252 della Relazione annuale della Banca d’Italia sul 1974, maggio 1975). La situazione di instabilità che ne scaturiva obbligò l’Italia a chiedere il sostegno del FMI sia nel 1974 che nel 1976.
Il Giappone, che ha il debito pubblico più alto al mondo tra i paesi avanzati (239 per cento del Pil a fine 2016), viene spesso citato come un esempio di un paese in cui il finanziamento monetario del deficit in misura massiccia non ha causato particolari problemi (il Giappone non è stato mai toccato da crisi di fiducia sul mercato dei titoli di stato). Non dovrebbe l’Italia seguire il suo esempio? Ci sono alcune cose da chiarire riguardo il caso giapponese. Primo, il governo giapponese detiene importi elevati di attività finanziarie liquide (compresi i titoli di stato, insomma è una partita di giro), al netto di queste attività finanziarie il debito scende al 119 per cento. Secondo, il 90 per cento di questi titoli è detenuto dai giapponesi stessi che, forse per motivi culturali, sembrano piuttosto restii a speculare contro il proprio governo. Terzo, la liquidità creata dalla Banca centrale giapponese viene per ora detenuta in quantità massicce dalle banche senza che sorga il desiderio di diversificare il proprio portafoglio. Anche in questo caso, prevale forse un elemento di disciplina nazionale. Quarto, sebbene il Giappone sia stato esente da crisi sul mercato dei titoli di stato, il peso del debito pubblico potrebbe aver influito sul suo basso tasso di crescita negli ultimi decenni. I paesi avanzati con il tasso di crescita minore dal 1990 sono Italia, Grecia e Giappone, che sono anche quelli con il livello di debito più elevato. Il contributo negativo che un livello eccessivo di debito pubblico esercita sulla crescita di medio-lungo dell’economia è stato confermato da diversi studi econometrici
Una nuova moneta che fosse introdotta in Italia dovrebbe affrontare immediatamente il problema di stabilire la propria credibilità in termini di mantenimento di potere d’acquisto. La tentazione per chi riceve nuove lire di comprare valute “forti”, come l’euro stesso, sarebbe elevata, visto che il rischio sarebbe probabilmente unidirezionale. Acquisire credibilità è possibile ma richiede probabilmente, almeno in una fase iniziale, politiche monetarie e fiscali piuttosto stringenti. È il problema affrontato da tutte le nuove monete introdotte anche negli anni più recenti. Acquisire credibilità richiede di dimostrare ai potenziali detentori che la moneta in questione non sarà offerta a pioggia, per soddisfare qualunque esigenza di finanziamento del deficit e del debito pubblico. Per esempio, quando la Repubblica Ceca introdusse la nuova corona, la posizione fiscale fu mantenuta vicino al pareggio (il deficit medio tra il 1993 e il 1996 fu inferiore all’1 per cento. Ben diverso sarebbe il caso di una moneta introdotta con lo scopo specifico di consentire deficit più elevati e la liquidazione del debito pubblico, oppure di svalutare per recuperare competitività.
Possiamo quindi concludere che le tesi esposte nell’articolo di Gionco, pur avendo una loro logica, sono però del tutto inapplicabili per i motivi sopra esposti”.
Fabrizio Manzione
Abbiamo, poi, il commento di Gianni Di Noia, secondo il quale i temi proposti nell’articolo di Davide Gionco sono sicuramente interessanti e, personalmente, anche condivisibili.
” Un articolo di questo tipo ha diverse conseguenze. Gli argomenti proposti hanno una chiave di lettura che di questi tempi può certamente essere condivisa dal M5S e da Lega e Fratelli d’Italia, e quindi, in linea con le forze che hanno vinto le elezioni ultime, ma ci mette sicuramente in una posizione di conflitto con Europa e mondo finanziario che espone tutto il paese a rischi elevati.
Ad oggi pare che solo la Banca Centrale Europea mantenga un adeguato livello di acquisti dei nostri titoli di Stato, ed una rottura di una linea di condotta sul debito accettata a livello europeo avrebbe effetti che abbiamo già visto nel 2011. Oggi siamo nella condizione di dover sottostare volenti o nolenti ai “ diktat” europei.
La decisione di cambiare la nostra politica finanziaria, bancaria e monetaria può avvenire in maniera brusca se ad attuarla fosse un gruppo politico o un’alleanza politica forte sostenuti da una base popolare consapevole delle conseguenze.
Occorrerebbe allora una strategia di lungo respiro che porti gradualmente il Paese ad essere nelle condizioni di affermare una politica autonoma.
Ma in questo scenario di frammentazione ed incertezza, chi potrebbe avere la capacità di iniziare e portare avanti una strategia che duri anni?
L’idea che possa essere l’Europa a cambiare mi pare sia esclusa.
Il problema evidentemente non è solo economico, quanto geopolitico e strategico.
Gianni Di Noia
Giancarlo Infante, sviluppando le riflessioni di Gianni Di Noia sulla dimensione internazionale del problema, così, commenta:
” Davide Gioco ha prodotto un interessante lavoro sul Debito pubblico con il merito di sfatare alcuni luoghi comuni e portare ad una riflessione su tutti i tentativi posti in essere negli ultimi anni per costringere l’Italia, ma non solo ad essa, in una politica di austerity caratterizzata dall’imposizione di una visione persino predatoria . In questa direzione sono andati, e ancora vanno, anche precisi interessi economici e politici italiani, oltre quelli evidentemente di natura esterna.
A me interessa molto la riflessione di Gionco, che non a caso, la pone al primo punto del proprio lavoro, sulla valenza del Debito pubblico nei rapporti con l’Europa e trovo necessario sviluppare dei punti già presenti nell’analisi di Gianni Di Noia.
Al grido “ lo vuole l’Europa”, insieme ad altri paesi comunitari, siamo stati spinti in una situazione estrema di recessione contraddicendo, persino, quella visione “ ideologia” del mercato che ha sostituito negli ultimi 20 anni ogni altra ideologia e demonizzato proprio quelle forze politiche moderate e ragionevoli impegnate a raggiungere un equilibrio tra capitale finanziario, economia reale e mondo del lavoro.
Una nuova ideologia, spacciandosi per anti ideologica, è servita per andare contro tutto ciò che aveva reso l’Italia importante e l’Europa grande ed unita, al punto di potersi permettere il costoso sforzo della riunificazione tedesca e l’estensione delle proprie frontiere, geografiche, politiche ed economiche, ben al di là di quella che era la vecchia “ cortina di ferro”.
Anche la spada di Damocle del debito pubblico è stata usata per frenare lo sviluppo di talune realtà, soprattutto presenti nell’area mediterranea, con la conseguenza di contraddire quella politica di “ coesione” , pure presente e fondante lo spirito e la politica dell’Unione europea.
L’attacco a punti di forza dell’economia italiana, poi, sono stati evidenti.
Questo spiega persino la spregiudicatezza con cui sono state perseguite quelle politiche europee funzionali all’allargamento della forbice tra ricchi e poveri, così come tra le diverse economie europee, e a minare nel profondo la fiducia dei cittadini verso le istituzioni comunitarie.
In questo modo si sono scientemente favorite le spinte localistiche e particolaristiche, oltre che a mettere in crisi la visione ideale e politica del progetto di unità europea il quale ha, comunque, nel proprio bilancio storico positivo oltre 70 anni di pace, una crescita del tenore di vita complessiva di 500 milioni di abitanti del Vecchio continente, assieme alla prospettiva di far assumere all’Europa un ruolo determinante a livello geopolitico in una parte del mondo reso cruciale dalla vicinanza con quel grande serbatoio di riserve naturali costituito dalla Russia e con la realtà mediorientale e nord africana.
La battaglia sul Debito pubblico, con la sua utilizzazione strumentale a favore delle posizioni più estreme antieuropee e contro l’Euro, non deve essere valutata né come neutra né come spontanea.
Così come né neutre né spontanee sono più quelle forze che oggi piace definire “ populistiche”, le quali, comunque, non dobbiamo dimenticarlo, catalizzano le difficoltà oggettive in cui sono ancora poste grandi quantità di famiglie, imprenditori ed artigiani. Su molte di queste forze premono precise strategie politiche e finanziarie.
Molti sono gli interessi che continuano a lavorare per indebolire singoli paesi e, più in generale, il processo d’integrazione europea: quelli esterni che si richiamano a taluni settori della finanza internazionale, ad una parte dell’economia reale anglo americana, a precise forze presenti nel Medio Oriente impegnate attivamente affinché l’Europa modifichi il proprio caratteristico ruolo di equilibrio e si schieri in maniera tale che, a mio avviso, sarebbe controproducente anche per gli stessi soggetti mediorientali coinvolti.
Dunque, l’intervento di Gionco ha il grande merito di farci riflettere sul contesto generale in cui inserire anche il dibattito sul Debito pubblico, affinché questo dibattito assuma una dimensione realistica e concreta, destinata, allora, ad essere declinata non solo nei suoi pur importanti e fondamentali elementi tecnici.
Lo sfondo su cui la questione si deve porre è politico, internazionale e nazionale, e a questo dobbiamo riferirci per un’analisi utile a superare un problema che, in ogni caso, anche gli italiani debbono risolvere, volenti o nolenti.
Dai competenti sulle questioni tecniche vengano i contributi fondamentali tenendo conto che, a mio avviso:
- la classe politica italiana deve elaborare nella propria autonomia le vie per risolvere la questione del Debito, facendola diventare davvero una “ questione nazionale. E’ necessario recuperare, allora, il senso di una responsabilità totale perché esso costituisce un problema “ nostro” e smetterla di baloccarsi su “ lo vuole l’Europa”, ma anche sull’alibi che, siccome “ lo vuole l’Europa” ce ne disinteressiamo e continuiamo ad accrescerlo, come hanno fatto tutti i governi finora, da Prodi a Berlusconi, da Monti a Renzi;
- il problema, dunque, deve essere “ depurato” da questa sterile polemica con Bruxelles e le altre capitali europee. Prendiamo, tra l’altro atto che, dai giorni del governo Monti, molto è cambiato anche nel clima europeo, o molti sono i segnali che fanno sperare in una nuova direzione perché la crisi non ha risparmiato nessuno. Anche i liberisti più sfegatati stanno valutando l’entità dei guasti provocati. Continuare con una sterile polemica verso l’Europa rischia, persino, di perdere il poco di positivo che la deflazione in atto ha insegnato a tutti.
- E’ necessario ritornare ai 12 punti indicati da Convergenza cristiana, sulla base delle proposte d Nino Galloni, per imboccare una via di ripresa ( CLICCA QUI http://www.convergenzacristiana.it/2017/08/01/cominciamo-a-costruire-un-programma-economico/) quando, a proposito del Debito pubblico, dicevamo:
“ La riduzione del debito pubblico è basata sul mantenimento di bassi tassi di interesse e la continua riduzione della quantità di titoli in mano ai possessori esteri. Le politiche di “ quantitative easing” della BCE sono state utili in tal senso.
Urge, però, la formazione di un’agenzia di “ rating” europea o mediterranea, indipendente e seria, diversa da quelle esistenti, le quali, obbedendo ai cosiddetti “ poteri forti”, distorcono la funzione di tali agenzie ed espongono gli Stati ed i risparmiatori privati a soprusi ed errori evidenti.”
Per poi aggiungere : “Il debito pubblico, peraltro, deve continuare a svolgere la sua peculiare funzione di drenaggio del risparmio in eccesso nell’accordo – tra i ricchi e lo Stato – di contenimento dell’alternativo aumento della pressione fiscale.
D’altra parte, il debito è uno stock che va paragonato con gli altri stock come la ricchezza nazionale o il patrimonio pubblico e non solamente con il flusso del Pil. Quest’ultimo, semmai, andrà paragonato al flusso degli interessi sul debito che sarà contenuto sia dal patto tra i ricchi e lo Stato, sia dalla politica monetaria.”
Giancarlo Infante