RITORNARE ALL’UNITÀ PER RIFONDARE LA DEMOCRAZIA. LA RIPARTENZA DEI CATTOLICI ITALIANI
Roma, Casa Bonus Pastor 25 marzo 2017
Premessa: le radici dell’impegno sociale e politico
Ho accettato volentieri l’invito del senatore Tarolli, anche perché fa parte del compito del vescovo accompagnare i credenti, sostenerli, incoraggiarli e, se possibile, offrire loro spunti di riflessione. E questo, soprattutto con riferimento all’evangelizzazione del sociale, un tema a me molto caro, che comporta un compito di liberazione e di umanizzazione di ogni uomo e di tutto l’uomo, a partire dalla vocazione al sociale!
Per chi vive in Cristo ‒ mi ricollego alla liturgia vissuta poco fa ‒, c’è anche l’impegno di portare la politica a compimento in Dio. Siamo chiamati al bene comune. Siamo sollecitati a vedere la nostra vita e la nostra azione in tutti i campi fondate su Gesù Cristo; anzi, innestate in Lui, che ha assunto l’umano divinizzandolo. Egli si è fatto carne e, con questo misterioso avvenimento, ha indirizzato la nostra stessa vita verso quella completa realizzazione che si attua soltanto in Lui. Dobbiamo, allora, vivere la nostra vocazione al sociale, al bene comune, tendendo appunto a quella pienezza umana che ci è stata donata in nuce dal Figlio di Dio. Ciò significa non tradire la nostra identità di persone che hanno in Lui la fonte della loro sussistenza. Questo ci fa capire che siamo portatori di una vocazione cristiana al sociale e alla politica. Non sempre ce se ne rende conto. Anzi, sembra che questa visione sia pressoché scomparsa dalla coscienza del credente. E, invece, a fronte della realtà che porta inscritta in sé, ognuno dovrebbe rispondere, al pari di Gesù Cristo: «Ecco io vengo…» (Sal 39. E con ciò, assumere e vivere, con slancio e passione, la propria vocazione alla politica nell’Uomo Nuovo, che è tale perché Uomo-Dio.
L’esortazione apostolica Evangelii Gaudium di Papa Francesco descrive la radicazione in Cristo della nostra vita, della nostra vocazione sociale, a partire dalla considerazione del kérygma (cf n. 177) della nostra professione di fede: noi crediamo in Dio Padre e nel Figlio, Gesù Cristo, che si è incarnato, ha assunto e redento l’umanità. Crediamo nella Trinità. Crediamo di essere inseriti nella comunione e nella dinamica d’amore di un Dio uno e trino. Con questa professione, dichiariamo la nostra apertura e vocazione al sociale. Se professiamo Dio come Padre, professiamo la fraternità, riconoscendo gli altri come fratelli e, quindi, consapevoli di essere destinati a vivere in una stessa famiglia: la famiglia umana, che è anche la famiglia di Dio. Così, se diciamo di credere nel Cristo, Figlio incarnato, affermiamo in sostanza che ogni uomo è stato elevato alla dignità di figlio di Dio: la dignità della persona è la dignità di figlio di Dio. Questo, evidentemente, comporta una particolare attenzione nei confronti dell’altro, di ogni altro. Analogamente, se professiamo la Trinità, dichiariamo che il nostro modello di vita e la nostra meta sono la vita comunitaria di Dio.
Riconoscere la dimensione sociale della propria fede, che si evidenzia soprattutto nel vissuto, è come rompere gli ormeggi e salpare verso il mare aperto. E chi si mette in viaggio deve avere ben chiaro il perché. Deve guardare verso la meta. Per noi credenti, il porto d’arrivo è rappresentato dal compimento in Dio della nostra vita nella pólis. Dio è il fine ultimo, lo sappiamo. Perseguendo questo fine, il nostro Bene sommo, vivifichiamo e umanizziamo tutte le dimensioni dell’esistenza, portandole al loro compimento umano. L’impegno politico e la politica raggiungono la loro perfezione, se li viviamo con il cuore pieno di Dio, del suo amore, un cuore pieno di verità, come ci ha insegnato Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in veritate.
Vivendo Cristo, il credente si interroga su che cos’è la politica e qual’è il suo compimento. Stando in Cristo, dimorando in Lui, l’impegno diventa quello di tendere alla perfezione di tutte le realtà umane. Per il credente, che salpa verso il mare aperto ‒ duc in altum ‒. è dunque decisivo riconoscere e accogliere il punto sorgivo, generativo della propria presenza nel campo, non sempre tranquillo, del sociale e del civile. Noi siamo presenti socialmente e civilmente non solo in quanto esseri umani, esseri intrinsecamente sociali, ma anche perché soggetti innestati e viventi in Cristo. Non ci si stancherà mai di sottolineare che il punto sorgivo è il vivere in Cristo, è vivere Cristo, il Cristo totale, che si incarna, muore, discende negli inferi, risorge, ascende al cielo e, abbracciando tutto il cosmo, ricapitola in sé tutte le cose, compresa la politica. Con il suo Amore, rinnova la vita dell’uomo in tutte le sue manifestazioni. Ne discende che chi vive nel Cristo totale, cioè in Colui che si incarna e poi sale al Padre, ha il compito di vivere la politica facendola nuova, puntando alla rinascita dell’umano.
- Alcune cause dell’irrilevanza dei cattolici nel campo della politica
Dopo questa indispensabile premessa, veniamo al nostro tema, quello che deve essere al centro della nostra e vostra riflessione. Lo accenno semplicemente, perché nel 2011 si era già cercato di creare un nuovo movimento sociale e politico, che tuttavia non è andato a buon fine. Quegli stessi che avevano contribuito a farlo nascere, come un’urgenza che doveva rispondere alla necessità di una ricomposizione culturale, prima ancora che socio-politica, non sono sempre riusciti a portare avanti il progetto. Anzi, alcuni hanno rimosso l’idea di un «movimento» culturale, per impegnarsi più immediatamente nella nascita di una nuova realtà partitica, senza avvertire la necessità di lavorare in primo luogo alla creazione di un dialogo tra molteplici forze sociali di estrazione sia cattolica che liberale – ossia facenti capo a persone di buona volontà, anche se non credenti ‒, e alla elaborazione di un nuovo progetto culturale. In certo modo, ciò ha ritardato la nascita di quanto, per fortuna, oggi vedo che si desidera riprendere, spero senza fughe in avanti.
Agli inizi degli anni Novanta, la diaspora dei cattolici nel campo della politica, perché questo è uno dei punti da cui dobbiamo muovere, poteva apparire non solo come una necessità motivata, ma anche come una preziosa opportunità, persino come una «benedizione», secondo alcuni. Rendeva evidente che il seme cristiano non poteva essere “sequestrato” da qualche compagine, in questo caso partitica, rinchiudendola dentro involucri, che alla fine lo contraddicevano e lo rendevano sterile. Il lievito dei cristiani doveva far fermentare tutta la pasta. Oggi, tuttavia, abbiamo la possibilità di una valutazione chiara di questa forma di pensiero. La diaspora, teorizzata come un bene, al lato pratico si è trasformata in irrilevanza dei cattolici nella vita pubblica. E, fatto ancora più grave, ha lasciato dei segni di contrapposizione, provocando forti divisioni tra i cattolici stessi.
Accenno qui ad almeno a due cause dell’attuale irrilevanza o insignificanza dei cattolici:
A) La prima causa. Sono state sottovalutate le regole procedurali della vita democratica, in particolare quella del principio di maggioranza. In una democrazia, i beni-valori, compresi quelli dei cattolici, possono e devono venire inseriti nelle istituzioni e nelle leggi, mediante un metodo democratico, con l’appoggio di una maggioranza; il che suppone che vi sia una qualche «massa critica» che li sostenga. Per quanto concerne la regola procedurale della maggioranza, è facile capire che quanti hanno sostenuto la «teoria» della diaspora, in sostanza hanno contribuito a far regredire le posizioni del mondo cattolico dal punto di vista politico e democratico. Al pari di ogni altro cittadino, il cattolico sa che, in una democrazia pluralista, può promuovere tutto quello in cui crede, sia come persona umana sia come uomo di fede ‒ la sua fede non fa altro che confermare ciò che pensa come essere umano e razionale ‒ ma solo se vive all’interno di una aggregazione e non disperso qua e là, in diaspora. Ossia se, assieme ad altri, giunge a costituire una maggioranza. È una legge della vita democratica. Affinché i propri beni-valori possano essere incarnati dall’azione politica, occorre essere il più possibile uniti, compatti.
Rispetto a questo punto, la parte del mondo cattolico, che ha sostenuto e ancora sostiene la teoria della diaspora, ma anche quei teologi e quei vescovi che l’hanno condivisa, a mio modo di vedere, ha contribuito a far regredire la «maturità» politica in una specie di analfabetismo sociale.
B) La seconda causa. Il venir meno del radicamento della vita dei cattolici nel contesto spirituale e culturale di una fede A lungo andare, ciò ha provocato lo scollamento dei movimenti sociali di ispirazione cristiana rispetto ai valori evangelici e all’esperienza di una fede vissuta profondamente, generando il disfacimento di una formazione e di una mentalità cristiane. Tra l’altro, parrocchie, diocesi, movimenti hanno delegato a terzi la formazione politica del credente, impegnato a gestire la cosa pubblica e a vivere nella comunità civile. Non raramente, la Dottrina sociale della Chiesa è rimasta negli Statuti delle organizzazioni cattoliche o di ispirazione cristiana come affermazione di principio, senza essere tradotta in pratica! Da molte associazioni, aggregazioni, movimenti cattolici o di ispirazione cristiana, la Dottrina sociale della Chiesa è ormai pressoché ignorata. Per non parlare, poi, della vita parrocchiale: ci sono indagini che mostrano che la catechesi è fatta da persone che per l’ottanta per cento ignorano che cosa sia la Dottrina o Insegnamento sociale della Chiesa e, quindi, non sono in grado di veicolarla nella loro opera di educazione alla fede.
2. La crisi della democrazia mette in risalto la falsità del dogma della diaspora
Il fallimento del dogma politico della diaspora dei cattolici è divenuto più evidente in questo tempo di profonda crisi della vita politica, dei partiti e della democrazia, che si manifesta come crisi di rappresentanza, di rappresentatività, di partecipazione. Viviamo in un frangente storico di deficit di rendimento dei sistemi democratici e di sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e delle élite politiche e democratiche. Anzi, in un clima di crollo della democrazia proprio nei suoi pilastri fondamentali, rappresentati dalla libertà, dallo Stato di diritto e dallo Stato sociale.
La democrazia è nata come una «promessa» di libertà,[1] da realizzare gradualmente, mediante l’emancipazione della soggettività e la liberazione dalle catene dell’eteronomia. Purtroppo, il fondamento della libertà, appropriato da un soggetto radicalmente utilitario ed individualista, ha reso un simile obiettivo alquanto difficile. Oggi, la democrazia sembra accentuare la fragilità del progetto iniziale, a motivo di un impianto culturale individualista, divenuto più esteso e virulento, perché associato all’assolutizzazione della tecnocrazia e del capitalismo finanziario. L’odierna democrazia appare, così, in forte decadenza, incapace di salvaguardare anche la libertà più alta, ossia la libertà religiosa nelle sue varie articolazioni. Non poche amministrazioni comunali negano la libertà dell’educazione cattolica, come anche la libertà di coscienza in materia di aborto. In Francia, ove da tempo è stato codificato il diritto all’aborto, ultimamente si è deciso che coloro che via web provano a dissuadere da tale pratica sono passibili di una multa di 30.000 Euro, con l’aggiunta di poter essere condannati a due anni di carcere. Insomma, ci dovrebbe essere libertà solo per chi vuole abortire, ma non per chi difende il diritto alla vita. E non si osserva affatto la presenza di un mondo cattolico sufficientemente organizzato e preparato, in grado di contrastare questi orientamenti. In Italia, poi, in non poche città, ICI ed IMU sono fatte gravare non solo sulle scuole cattoliche – scuole paritarie con funzione pubblica ‒ ma si tende anche a farle pesare sugli episcopi, sugli uffici curiali e sui locali della Caritas, considerati alla stregua di enti commerciali.
Si è appena detto che viviamo in una fase di crollo anche dell’altro pilastro della democrazia, e cioè dello Stato di diritto. Ciò avviene prevalentemente a motivo di un neoindividualismo radicale predominante. Sulla base di un individualismo quasi anarchico, ognuno si considera autonomo nel vero senso del termine, e cioè legge a se stesso. Ha valore solo ciò che decide il singolo, con il suo libero arbitrio. L’assolutizzazione dell’individuo, considerato unico metro di misura della verità e del bene, conduce a porre il soggettivismo a fondamento dei diritti e dei corrispettivi doveri. L’asserzione di un tale individualismo libertario pone un fondamento fragile ed incerto allo Stato di diritto contemporaneo, che appare sempre più instabile.
Il crollo dello Stato di diritto, con la complicità di un capitalismo finanziario ad impronta utilitarista e performativa, poi, provoca a sua volta la caduta del terzo pilastro della democrazia, ossia lo smantellamento dello Stato sociale. Il capitalismo finanziario, che assolutizza il profitto a breve e brevissimo termine, vanifica i diritti sociali, quali il diritto al lavoro, alla formazione professionale, alla sicurezza sociale, che sostanziano il Welfare State. Venendo così aggredito lo Stato sociale, viene meno la democrazia sostanziale, la quale può sussistere solo se, accanto ai diritti civili e politici, possono essere realizzati anche i diritti sociali.
In un contesto di decadimento dei vari pilastri della democrazia, i credenti, in quanto cittadini a pieno diritto, sullo stesso piano di tutti gli altri, sono sollecitati a dare il loro apporto, in vista della rifondazione della politica, con la riappropriazione della democrazia, oggi divenuta populista, oligarchica. Bisogna rifondare la politica, che ha finito per perdere, con la sua dignità, il suo significato umano! Proprio nel momento in cui abbiamo più bisogno di una retta azione politica, questa è venuta a mancare. Dopo il fallimento del neoliberismo nelle sue forme più estreme, dobbiamo recuperare la prospettiva dell’intervento statale nel campo dell’economia, ovviamente secondo il principio di sussidiarietà, quale peraltro era stato prospettato anche dalla Populorum Progressio, di cui quest’anno ricorre il 50º di promulgazione. E tuttavia, nel momento in cui, anche a livello di teorie economiche, un certo intervento statale è consigliato in sinergia con l’iniziativa del mercato e dell’iniziativa sociale, per ironia della sorte, avviene che non disponiamo più di uno Stato in grado di ordinare e orientare l’economia. Il primato, infatti, è detenuto dalla finanza speculativa e non appartiene a una sana azione politica.
Ciò costituisce un grave handicap per la democrazia, per la realizzazione del bene comune, per l’attuazione di uno Stato sociale e di un’economia democratica a misura di cittadino. Basti pensare al fallimento di parecchie banche italiane. Che cosa può fare ora il legislatore? Ben poco. In un contesto in cui lo Stato non batte più moneta, la sua autorità è fortemente ridimensionata e il suo contributo alla soluzione della crisi è circoscritto. Diventa, quindi, indispensabile l’intervento di Istituzioni internazionali, quali, ad esempio, la Comunità Europea o la BCE. Ma non si può ignorare la loro incompiutezza, l’urgenza di venire integrate sul piano mondiale. Insomma, ci troviamo in una situazione difficile e complessa, che richiede un rinnovato impegno ideale e sociale da parte di tutti i cittadini, compresi i cattolici. Se non si è vigilanti riguardo al dilagare del capitalismo finanziario internazionale, se non si pongono limiti al suo strapotere, si corre il rischio che gli Stati ne diventino schiavi, alla mercé di speculazioni che non sono più in grado di contrastare.
I credenti nella loro qualità di cittadini al pari di tutti gli altri, sono chiamati a dare il loro apporto in vista di tale rifondazione della politica, della ricostituzione del suo primato sull’economia, nonché di una democrazia inclusiva, partecipativa. In un quadro di caduta libera della democrazia, di una tale destrutturazione dell’economia reale, della famiglia, del lavoro, dello Stato sociale; in un mondo divenuto più complesso, più interconnesso, più interdipendente, non possono mancare, anzitutto, una nuova evangelizzazione del sociale, e neppure un nuovo «protagonismo» dei credenti, oltre che delle comunità cristiane, in rete con tutti gli uomini di buona volontà. E ciò, al fine di affrontare le molteplici questioni cruciali del tempo presente. Si tratta di gravissimi problemi sociali, che spaziano dai grandi esodi di migranti; dai traffici di persone umane; da una terza guerra mondiale «a pezzi»; dal predominio di teorie economiche, indirizzate al profitto di breve periodo; da un’Europa politica anchilosata e sequestrata dai nazionalismi, fino all’aumento delle disparità sociali; alle politiche fiscali che privilegiano i più ricchi; alle politiche monetarie, finanziarie ed economiche, che richiedono urgenti riforme, per poter sostenere la crescita e la piena occupazione.
A questo proposito, si stanno applicando solo dei palliativi, compresa la proposta del reddito di cittadinanza. Gli stessi economisti affermano che sarebbe meglio adottare una politica attiva del lavoro, perché solo così si possono far crescere le persone in libertà e responsabilità, procurando allo stesso tempo anche quel reddito nazionale che è indispensabile per ottenere risorse e finanziamenti. E, comunque sia, la «filosofia» del reddito di cittadinanza, che andrebbe realizzato non in maniera indiscriminata, richiederebbe in ogni caso di essere integrata da politiche ben più creative e positive di quelle attuali.
Al lato pratico, si deve pensare al potenziamento degli investimenti pubblici insieme a quelli privati; all’elevazione dei salari minimi; alla ridistribuzione più equa della ricchezza nazionale; alla riforma dei mercati del lavoro, per facilitarne l’accesso; alla riforma sull’immigrazione, creando percorsi che diano adito alla cittadinanza per quelli che ne hanno titolo; al potenziamento dell’economia civile; alla promozione della libertà religiosa; alla lotta contro la falsa teoria del gender; al rafforzamento della famiglia; a opportune politiche demografiche.
L’onorevole Luisa Santolini, qui presente, già Presidente delle Associazioni familiari, potrebbe dirci che le politiche di detassazione dei redditi familiari implicano ovviamente il fatto che le famiglie dispongano di un reddito. Ma se ne sono prive? Che senso avrebbe stabilire di detassare famiglie senza introiti? Ci vorranno, pertanto, ben altri provvedimenti a sostegno della famiglia, ivi comprese le politiche demografiche. Se nel nostro Paese non vi sarà una crescita consistente della natalità, si andrà incontro ad un sicuro fallimento dal punto di vista non solo demografico, ma anche economico.
Ecco alcuni ambiti rispetto ai quali i cattolici non possono più rimanere indifferenti e procedere divisi, in una diaspora che scolorisce e indebolisce sempre di più il loro apporto specifico. Essi sono chiamati a mobilitarsi, a ricompattarsi, assieme a tutti gli uomini di buona volontà, che hanno a cuore il bene comune.
- Quali prospettive di azione?
In particolare, c’è bisogno di conversione – uso questo termine che riprendo dai testi pontifici, anche se corro il rischio di non essere compreso ‒, pastorale, pedagogica, politica, economica, come ha sottolineato l’enciclica Evangelii Gaudium. Recentemente Papa Francesco, incontrando nel novembre 2016 i movimenti popolari, li ha incoraggiati a rafforzarsi, vincendo il rischio sia di farsi incasellare dall’attuale sistema socio-economico, sia di lasciarsi corrompere.
Simili suggerimenti possono tornare utili anche al Movimento, a cui molti dei presenti intendono dar vita. Si vuole, così, essere particolarmente incisivi nella rivitalizzazione e nella rifondazione della democrazia, afflitta, come già detto, da una crisi profonda, che finisce per lasciare ai margini i più poveri. L’attuale crisi causa, infatti l’erosione dei ceti medi, accrescendo il divario tra ricchi e poveri, dando luogo ad uno sviluppo economico insoddisfacente e all’emergere di una «democrazia di un terzo».
I movimenti, secondo il pontefice, devono superare la tentazione di sostenere acriticamente coloro che sono al potere, finendo per essere soltanto amministratori delle esigue risorse esistenti, anziché favorire la crescita per tutti.
A questo proposito, desidero richiamare il vissuto odierno, per sottolineare come esso non sembra organizzato in modo tale da poter promuovere dei cambiamenti. Non raramente, i cattolici – dall’Azione Cattolica a Comunione e Liberazione, dalla Confcooperative alla Coldiretti ‒ sono per lo più «inseriti» nel Partito Democratico. Non si intende qui negare la legittimità di collocarsi politicamente da una parte o dall’altra, di scegliere un partito piuttosto che un altro, evidentemente a certe condizioni. Si desidera solo sottolineare la necessità che la scelta partitica sia sempre vissuta con intelligenza, con senso critico, in modo da non assegnare il primato al colore dell’appartenenza rispetto ai beni-valori in cui si crede. Concedere il primato alle direttive dei partiti conduce talora ad esiti infausti. Quando si parli di libertà di educazione e, ad esempio, di tassazione della scuola cattolica paritaria mediante aliquote ICI o IMU penalizzanti; quando si parli di altri temi sensibili, come l’obiezione di coscienza da parte dei medici nei confronti dell’aborto, o come l’eutanasia, molti cattolici, che fanno riferimento al Partito Democratico attualmente al governo, sembrano rimanere inerti, mettendo a tacere ogni obiezione. Non si pronunciano contro gli ordini di scuderia del partito, rispetto a decisioni che finiscono per smantellare lo stesso modello di famiglia e il concetto di lavoro, quali sono codificati nella Costituzione Italiana. Credo che sia legittimo domandarsi per quale ragione si comportino in tal modo. Non possiedono, forse, una loro identità, che non dovrebbe permettere di rassegnarsi a che i beni-valori fondamentali siano platealmente disprezzati o negati? Non sono dotati di una cultura e di un patrimonio valoriale che li renderebbe rivoluzionari, rispetto agli orientamenti esistenti? Per rispondere a simili interrogativi, sarebbe sufficiente pensare ad un breve elenco delle prospettive di cui sono portatori: la vita come dono di Dio; la fraternità; la libertà responsabile; la solidarietà; la famiglia, come culla della vita e dell’educazione della persona; il lavoro, come bene fondamentale, antidoto alla povertà e titolo di partecipazione, che sollecita a politiche del lavoro per tutti; un’economia sociale, implicante una imprenditorialità plurivalente e una finanza a servizio dell’economia reale; l’ecologia integrale; il bene comune; la giustizia sociale; la pace. Possibile che, in forza della loro identità, della dimensione sociale della loro fede, delle alte motivazioni evangeliche che li animano, della ricchezza della loro tradizione sociale più nobile, in un contesto di smantellamento del valore della vita e della famiglia, come società naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, nonché dello Stato sociale, della crisi ecologica, della tratta di esseri umani, di una terza guerra mondiale «a pezzi», della crescita delle povertà e delle diseguaglianze, di migrazioni umane dalle proporzioni bibliche, i cattolici non riescano a trovare un sussulto di dignità, il desiderio di un servizio indomito e responsabile al bene comune, un minimo di unità innanzitutto tra loro e, poi, con gli uomini e le donne di buona volontà, per reagire ai mali che stanno portando l’umanità alla rovina? Perché non incontrarsi, parlare, dialogare e costituire insieme nuovi movimenti sociali e culturali, una nuova «massa critica», tale da poter incidere sulle attuali dinamiche di distruzione e di disumanizzazione delle nostre città, delle nuove generazioni? In diverse occasioni ho avuto modo di sollecitare le varie organizzazioni, associazioni ed aggregazioni cattoliche o di ispirazione cristiana ‒ considerato che non esiste più il vecchio movimento sociale cattolico ‒, a compattarsi, a formare nuovi movimenti, quali luoghi di elaborazione di una nuova cultura, di una nuova progettualità, di una nuova rappresentanza e di una nuova partecipazione. Non raramente mi sono sentito obiettare: «Ma lei desidera formare un nuovo partito!». Ho risposto che un vescovo non può fondare un partito, perché questo è compito precipuo dei laici, qualora, poste alcune condizioni, lo credano opportuno. Per inciso ‒ a differenza di coloro che considerano superata l’idea che i cattolici, assieme ad altri uomini di buona volontà, possano far nascere nuove entità partitiche ispirate cristianamente! ‒ personalmente ritengo che non lo si debba considerare un’astrusità o persino una bestemmia. Non sarebbe un male se, in base alle necessità e condizioni preesistenti, si volesse agire in tal senso! I credenti non sono cittadini di serie B. Al pari di tutti gli altri cittadini, hanno il diritto di associarsi e, quindi, di formare partiti, qualora lo ritengano necessario e opportuno. È un compito che spetta a loro, e non certamente alla chiesa gerarchica.
Ad ogni buon conto, considerata la situazione, prima ancora di avviare precipitosamente la nascita di nuovi partiti – che qualcuno vorrebbe «cattolici», cosa che già don Luigi Sturzo ha mostrato essere incongruente -, occorre impegnarsi nell’unire le forze, lavorando alla compattazione di una nuova piattaforma valoriale e culturale, sulla cui base elaborare una nuova progettualità. Al riguardo, può servire come modello l’azione di quei cattolici che nel secolo scorso hanno provveduto alla stesura del noto Codice di Camaldoli. Si potrà allora giungere, attraverso ulteriori passaggi, ad un progetto politico. Fate bene, in questa fase storica, ad unirvi in un Movimento, al fine di individuare un nuovo pensiero, una nuova visione della società e, conseguentemente, un nuovo progetto sociale! Un problema non secondario, oggi, è quello appunto di costruire l’unità necessaria innanzitutto tra i credenti e, poi, con gli uomini di buona volontà, anche di estrazione liberale, che non siano alieni dalla solidarietà. Detto brevemente, la questione cruciale non è tanto la forma della discesa in campo, ma è come costruire l’unità tra i cattolici, che attualmente sono in preda al dogma della diaspora e vivono in un pluralismo divaricato!
Ho avuto modo di incontrare varie realtà di cattolici in diverse città italiane ed ho potuto notare che esiste un popolo della pace, già di antica data. Esiste, inoltre, un popolo per la vita ed un popolo per la famiglia. Ma ho anche dovuto registrare che tra questi vari «popoli», fondamentalmente di ispirazione cristiana, non si riesce a trovare il modo di unirsi, che il dialogo è difficile. Si preferisce procedere in ordine sparso, anche in occasione delle elezioni, senza considerare adeguatamente che questa frammentarietà rappresenta una grande debolezza dal punto di vista dell’incisività politica.
È questa la vera tragedia del mondo cattolico contemporaneo! Si sceglie la diaspora, la frammentazione invece della sinergia, della collaborazione. Sulla base di questa prassi consolidata, è velleitario pensare di riuscire a costituire un nuovo partito. Occorre prima imparare, con umiltà, ad incontrarsi, a dialogare, a costruire insieme un nuovo «progetto Paese». Peraltro, sembra davvero irreale ed utopistico il desiderio, suscitato da un eventuale rilancio del sistema elettorale proporzionale, di poter costituire un nuovo partito, essendo così pochi. Un nuovo partito non è destinato al successo senza un minimo di unità valoriale e culturale, senza un numero consistente di adesioni, senza una qualche massa critica, senza un minimo di radicazione nel territorio nazionale. Un nuovo partito non potrà mai decollare con un numero esiguo di aderenti. Come affermato all’inizio, non si può ignorare quella legge fondamentale della democrazia che è il principio di maggioranza. Per procedere con una speranza fondata, occorre che le diverse aggregazioni, associazioni, e movimenti si pongano in sinergia. In questo momento storico bisogna lavorare, per fare rete con altre realtà. È facile rappresentare la situazione attuale. È costituita da tanti «cespugli», da tante piccole entità indipendenti. Ognuna desidera evolvere in un partito, senza relazionarsi con altri, ma ciò non pare realisticamente fattibile!
Bisogna avere il coraggio di superare particolarismi ed isolazionismi. Penso, talvolta, che oltre ad una Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, ci vorrebbe una Settimana di preghiera per l’unità dei cattolici! Ricordando il beato Giuseppe Toniolo, quando era in corso il processo di beatificazione e si vagliavano i vari miracoli, solevo ripetere agli appartenenti all’Azione Cattolica: «Non disperate! Toniolo sicuramente ha già compiuto un miracolo, che dev’essergli riconosciuto! Assieme ad Antonio Zucchini (grande cattolico di Faenza ove sono vescovo), e ad altri credenti visionari, è riuscito a unire e compattare i cattolici!».
So che voi siete impegnati nel costituirvi come nuovo Movimento culturale, prima che politico. Ho avuto modo di analizzare alcuni materiali, che sono stati predisposti anche in vista di un nuovo progetto politico. Mi sono parsi un valido inizio. Si tratta di continuare su questa strada, ad imitazione del gruppo di Camaldoli, tenendo conto delle res novae del contesto odierno.
Auguro a tutti un proficuo lavoro.
+ Mario Toso
Vescovo di Faenza-Modigliana
[1] Su questo mi permetto di rinviare a: M. Toso, Per una nuova democrazia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016.