Con umiltà ma anche con convinzione ho accettato l’invito del mio vecchio e stimato amico Giancarlo Infante per destinare molta passione e tutto il piccolo o grande patrimonio della mia non più verde età a quanti possono leggere con interesse o sentono di partecipare e vivere insieme un’impresa possibile: tornare ad attivare, nel cuore della società italiana, valori di tempi lontani ma non transeunti, e a testimoniare una più responsabile e lungimirante azione politica per il Paese. Si tratta, insomma, di riportare sulla scena politica italiana la presenza di un soggetto politico laico che si richiama alla testimonianza storica del popolarismo e dell’idea democratico-cristiana, che si pone come impegno prioritario l’intransigente difesa del quadro costituzionale, che vede nella Dottrina Sociale della Chiesa la sua fonte di ispirazione e che, riconoscendosi nella generosa immaginazione del federalismo europeo, guarda agli stati uniti d’Europa.
La crisi che, ormai da quasi dieci anni, imperversa con i suoi nefasti effetti finanziari, economici, sociali, morali – ma che già covava da molto tempo – ha spazzato via ideologie, valori, tradizioni, culture. E oggi, anche in casa nostra, domina un liberalismo cieco, un semplice liberismo economicistico, distorsivo di ogni civile aspirazione alla solidarietà, giustizia, libertà, equità. Il fatto è che, mentre l’orizzonte delle possibilità umane si è venuto immensamente allargando, in questi venticinque anni di assenza dei cattolici popolari e democratici dalla competizione politica il pensiero, la cultura, la tradizione, si sono, invece venuti ritraendo.
Uno spazio di grigiore è adesso sopra di noi, davanti a noi, in mezzo a noi. E sembriamo quasi costretti a rifugiarci nella memoria delle cose positive e dei maestri che abbiamo conosciuto e frequentato in passato, come cercare qualcosa e qualcuno che ci aliti una rinnovata speranza e ci suggerisca un itinerario su cui riprendere a procedere con lena. Su questo oggi siamo chiamati a riflettere e a decidere.
Il talento del popolarismo va trafficato ora come quello che può ridare fiducia e voglia di futuro ad un contesto sociale che ha smarrito l’idea di sé e declina, piuttosto, verso un aggregato di solitudini: come tale, corrivo alla tentazione antipolitica e, per ciò stesso, inerme di fronte agli inganni della politica. Popolarismo come antidoto al populismo: questa è l’attualità di un’idea purtroppo da lungo tempo in esilio. Se la società italiana ci appare, nella sua configurazione estesa, come solcata da tante crepe e complessivamente smarrita nella sua proiezione civile, e se una politica lontana e faziosa le chiede non di prendere parte ma soltanto di parteggiare, siamo sempre meno all’ora di una democrazia dei cittadini e sempre di più all’ora di una democrazia di spettatori o, al massimo, di tifosi. In ogni caso una decadenza.
Per trovare un varco, per illuminare un percorso c’è bisogno di qualcosa di più che un duello di pochi e c’è bisogno d’altro che la mediocrità di una rissa dilatata e stanca, tanto più impotente quanto più si mostra prepotente. In questa sterilità del conflitto politico si assottigliano i margini, già labili, della coscienza civile, aumenta il pregiudizio antipolitico, non trova sbocco l’energia dei fermenti più fervidi e intensi che, a motivo di una speranza eccessiva verso la politica, lasciati a se stessi finiscono per alimentare, anche loro, delusione nella politica.
Non c’è alcuna certezza all’orizzonte e tuttavia quelli che ci credono, per pochi che siano, per sgradevoli o patetici possano apparire, hanno un solo dovere: mettersi alla prova. Per loro – come ha insegnato Sturzo – “è giunta l’ora di cominciare da capo ad indovinare la via”. C’è dunque un cammino da intraprendere: non un ritorno ma nemmeno la discontinuità rispetto al percorso compiuto o la smemoratezza verso le ragioni che, storicamente, hanno motivato il punto di partenza. “Se le mappe devono essere nuove, perché nuovo è lo spazio da attraversare, non per questo bisogna buttare la bussola”.
Se altri considerano che strade diverse siano più utilmente percorribili, replichiamo che la nostra iniziativa nasce per la convinzione che solo una lunga fedeltà può rendere attuali e significative le ragioni dell’origine. Questo è il compito che si assegna la nostra proposta, nella consapevolezza di essere nulla più che un tentativo, forse soltanto un segnale, ma riconoscibile in una condizione oltremodo ambigua e rischiosa. Riconoscibile, almeno, per quanti rifiutano il conformismo delle soluzioni apparentemente più utili e stanno in disparte, ai margini di un contesto politico sentito come straniero, riconoscibile anche per chi, onestamente, si è indotto a negare la possibilità di altri impegni rispetto a quello imposto dalla lungo ed estenuante inverno dell’inattività della Democrazia Cristiana.
A questi amici, come a tutti coloro che con competenza e generosità stanno donando la loro intelligenza, cultura, volontà, passione per far riemergere il fiume carsico del movimento dei cattolici democratici e popolari, proponiamo l’alternativa, probabilmente scomoda e faticosa, di una soggettività politica da costruire insieme con l’orgoglio di stare nella contesa politica, nelle alleanze e nei contrasti, con un profilo originale e nel segno di una riconoscibile continuità.
Non interessa, di ciascuno, da dove venga, né sotto quali insegne si trovi a condurre la sua battaglia. Ciò che conta è che sia potente la convinzione di camminare insieme, secondo un’interpretazione comune di quanto insieme è possibile e doveroso fare in questo tempo politico, perché non sia muta o inespressiva l’impronta della storia cui insieme ci richiamiamo. Ma sia in grado, questa impronta, di dichiararsi e di stimolare un punto di vista critico rispetto alle questioni decisive della democrazia italiana.
Siamo consapevoli cosa significhi riprendere nelle mani questo barlume di speranza e scrutare dentro di noi “il cosa possiamo fare”, “il come operare di nuovo con specificità, competenza, visibile affidabilità”. Per quanto mi riguarda, questo rinascere, questo quasi re-indossare i pantaloni corti in una non più verde età, è come un secondo battesimo al quale volontariamente e dimessamente mi accosto per non essere più in balia della rassegnazione e della disillusione, per non smarrire il filo di un vecchio cammino compiuto e con risultati anche rimarchevoli ed inaspettati per il nostro Paese: sino dal dramma della guerra e del regime rovinoso che l’ha preceduta, le cui macerie di distruzione e di morte hanno consentito il generarsi del risorgimento dei nostri Costituenti.
Non è questo il tempo di celebrare gli eroi morti né le loro grandi conquiste. Agli eroi che ci sono stati padri siamo debitori di quanto abbiamo imparato, e l’onesto debitore paga continuando i loro atti testimoniali. A un certo punto della nostra storia, tuttavia, ci siamo accorti di quanto impegnativa e difficile da gestire fosse quella eredità. Oggi ci sentiamo ancora fragili nel riprendere in mano quel patrimonio che, in una parola, è il talento di governare fondato su radici di forte penetrazione popolare, sociale e cristiana. Radici non solo difficili da estirpare ma altresì assai esigenti in termini di coerenza personale: insomma; una scelta della politica aderente alla vita e non della vita aderente alla politica.
L’impegno di inserire i ceti popolari nello Stato, la moralità dei comportamenti di gestione della cosa pubblica, la risolutezza di una laicità che per noi non significa confusione, né separazione, né equilibrismo, ma cosciente responsabilità dentro la città dell’uomo, sono valori che, con coerenza e risolutezza, desideriamo nuovamente testimoniare. Ben sapendo che, come sapevano bene i Padri, la politica è servizio che usa con responsabile competenza il potere per conto di chi ha delegato al potere e della comunità cui il potere appartiene.
Sia ben chiaro – lo dico per primo a me stesso e ai giovani ai quali idealmente mi riferisco – che non si deve essere posseduti dal potere: niente di umano può possedere l’uomo: né potere, né denaro, né cultura, senza che sia rovinoso. L’uomo è per l’altro uomo perché chi possiede la nostra vita è solo Dio. Il politico, forse più di altri deve, ogni giorno, ricordarlo.
In questa concezione della politica, la mediazione degasperiana e anche quella morotea, sono sempre state all’insegna di cercare punti di contatto con chi camminava su strade diverse. Oggi il dialogo, la ricerca di accostarsi all’altro nel nome di una sempre rinnovabile volontà costruttiva del Paese, è ancora indispensabile: non solo per evitare guerre ideologiche e ostinata condanna dell’altro, ma anche per affermare un dialogo che non sia mero galateo di comportamento, bensì rispetto profondo della persona umana.
È inoltre indispensabile liberarci dalla distruttiva posizione espressa dall’aforisma di Sartre, “L’inferno sono gli altri”. Per noi gli altri sono la nostra comunità solidale, anche quando ne percepiamo limiti ed errori, dai quali, del resto, nemmeno noi siamo immuni. Per noi conta avere davvero nell’anima il bene comune.
Per quanto ci riguarda, noi dobbiamo coltivare la prossimità con chi non ha tutori ed è collocato alla periferia della rappresentanza politica e sociale come chi, abbandonato dalle istituzioni, è soccorso dalla carità ma ha diritto di essere assistito per atto di giustizia creduta e praticata. A tal proposito siamo sinceramente impegnati per un’autentica politica della liberazione soprattutto nei confronti – sono dati di questi ultimi giorni – di quei quattro milioni e mezzo di cittadini italiani che vivono in condizioni di povertà totale.
Desidero, infine ribadire il proposito di realizzare insieme il passaggio da una storia antica, ricca di successi ma anche dolorosamente responsabile di errori, verso un futuro altrettanto ricco di successi e meno esposto agli errori. Mi permetto di aggiungere che rappresento una generazione il cui compito precipuo è fornire buon esempio e retti consigli, trasmettere esperienza sana ed esemplare, per far avanzare sul proscenio delle responsabilità sociali e politiche – compresa la guida del partito – nuove generazioni e fresche energie.
In particolare, il partito dovrà veramente far vivere dentro di sé, attivamente tutta ed intera la ricchezza di umanità che vuole rappresentare. È per noi impensabile, ad esempio, che si possa realizzare il cammino ipotizzato senza una presenza molto più forte, costante, intensa anche numericamente, delle donne. L’umanità al femminile rappresenta una ricchezza che l’umanità al maschile non può pensare di surrogare. Essa, infatti, in modo più specifico è l’umanità dell’accoglienza, della sintesi e completezza di sensibilità e di approccio verso tutte le generazioni, tutte le istanze, tutte le esperienze. A mio parere eviterei di parlare di quote o di automatismi, quanto, piuttosto, di una vera e profonda azione culturale e organizzativa diffusa per realizzare questa più piena e necessaria armonizzazione nella vita del partito come in quella delle istituzioni e della società. Tale obiettivo si propone, in ultima analisi, di promuovere la compiutezza umana della persona, della famiglia e della comunità che procedono nella loro composita unità di vocazione e di destino.
Non è questione di anagrafe o di categorie: anziani e giovani, uomini e donne, hanno dato in tempi e modi diversi esempi eroici e deleteri. È, piuttosto, questione di anima e di effettiva pratica vissuta della democrazia interna. È essa, democrazia interna, che provvede all’immancabile e salutare ricambio fisiologico della classe dirigente. Insieme alla democrazia interna ricordo l’impegno quotidiano della nostra formazione permanente.
Nessuno, da ultimo, deve mai violare la santità delle urne nelle quali i nostri iscritti saranno chiamati a scegliere, in coscienza, le persone cui affidare la guida del cammino. Con semplicità e sapienza.
Non abbiamo bisogno di altro. Forse, in questo momento, il Paese non ha bisogno di altro.
Gianni Fontana
Verona, Santa Pasqua di Resurrezione